Perché la Didattica a Distanza è (stata) un’occasione persa?

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Con la Didattica a Distanza, attivata in fretta e furia dalle scuole italiane per sopperire alla carenza educativa provocata dalla pandemia da Coronavirus (Covid-19), ha preso forma un circolo vizioso.

Tesi: (non) siamo pronti per la digital revolution.

Antitesi: la digital revolution non ci piace.

Sintesi: non siamo pronti per la digital revolution.

Come siamo arrivati a questo?

Prima della pandemia, quindi poco prima del 22 febbraio 2020 (data in cui le scuole di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna sono state chiuse per decreto), l’uso della tecnologia e il suo insegnamento nelle aule di ogni ordine e grado, era lasciato al buon cuore degli insegnanti.

Non solo, purtroppo. Mettendola giù in modo comprensibile. L’atteggiamento generale è stato:

Siamo pronti per la rivoluzione digitale? No.

Perché? Perché no.

Il Digital Divide

Il crollo del castello di carte comincia infatti dal prendere atto che gran parte del Paese si trova ancora in digital divide: qui un articolo di Agenda Digitale, qui un altro articolo da Tecnica della Scuola.

Questo è un problema che non riguarda solo le imprese, gli anziani, le famiglie. Questo è un problema che colpisce, in particolar modo, le giovani generazioni. Quelle che dovrebbero essere native digitali e che invece si trovano, da un lato a confronto con una realtà sempre più lanciata verso l’online e dall’altro “lasciate indietro”, un po’ perché “su internet chissà cosa succede” e un po’ perché “qui da noi internet non arriva”, “eh l’Adsl magari”, “eh sai quanto costa una connessione in fibra”, “che poi non è neppure stata attivata”.

Quindi: il mondo ti chiede di essere smart ma poi ti impedisce di esserlo.

La DAD prima della pandemia

Prima della pandemia la Didattica a Distanza non era neppure concepita.

Buona grazia se c’era una LIM in ogni aula.

Buona grazia se maestri e professori erano aggiornati alle ultime novità in fatto di software, social, hardware.

Buona grazia se si faceva un’oretta di lezione di “tecnologia e informatica”, buttata lì, fra italiano e matematica.

L’informatica era (ma lo è ancora) la sorella minore e anche un po’ sfigata, che non si invita mai alle cene, che parla in modo strano, che si veste male, etc.

Arriva il Coronavirus: tutti a casa davanti al computer

Improvvisamente il Coronavirus ci svela un segreto: potrebbe pure capitare che ci si debba rintanare in casa e non si possa andare a scuola. Poco male, si sarebbe potuto dire con un piano tecnologico nazionale ben strutturato e raggiungibile da tutti.

Invece è stato un “corri corri”, un “prova così”, un “ti presto io un tablet… è vecchiotto ma forse in internet ci va”, “io non ci provo neanche: ho finito ora l’aggiornamento dedicato alla matematica per tutti, figuriamoci se mi studio le condivisioni di dati in videoconferenza… non sono un manager, insegno alle elementari”.

Gli studenti sono stati, letteralmente, abbandonati a loro stessi: senza una preparazione da parte delle scuole, senza un progetto, un piano, un’idea, un programma.

In pratica: facciamo le lezioni online, ogni scuola si arrangi come può e come crede, ogni famiglia cerchi di recuperare quel che riesce per mandare i propri ragazzi in rete.

E se non c’è connessione? Andiamo con gli hot-spot dei cellulari?

E se anche lì, siamo poco coperti? Eh, signora mia, quante storie.

Poi è andato quasi tutto bene: le scuole, piano piano, si sono allineate; chi ha fatto in un modo, chi in un altro, chi con una piattaforma, chi con l’altra; chi faceva lezioni su Zoom, chi su Teams, chi su Classroom o su Hangout.

Certo è che, in questi mesi, da marzo a luglio, l’Italia si è scoperta un po’ più nuda ma con una grande capacità di adattamento. Soprattutto nelle generazioni più giovani. Come era auspicabile.

Gli studenti hanno imparato a usare certi strumenti, si sono fatti più smart, hanno adempiuto a quanto la situazione ha richiesto. E le scuole si sono adeguate: maestri e prof hanno imparato nuovi linguaggi, nuovi strumenti. E assieme, maestri e studenti, hanno percorso un tratto di strada nuova per tutti.

È estate… non preoccuparti troppo

Nel Riccardo III si parlava di inverno dello scontento, noi dovremmo parlare dell’estate del “pace libera tutti”.

Nell’estate del 2020 non si è fatto nulla per rimediare agli errori, emersi con evidenza nella prima metà dell’anno: piuttosto si è pensato a mettere le rotelle nei banchi, a parlare comunque male della Didattica a Distanza (utile, si, però signora mia che palle avere i figli a casa che rompono e non studiano, e poi mi tocca pure comprargli un computer nuovo che quello che abbiamo a casa non va più, e la rete in casa non va e cosa fai… eh no no), a tornare a considerare l’informatica come una sorella minore, simpatica ma un po’ rompiscatole… a suo modo una Cenerentola.

Così si arriva a settembre, con la speranza di ripartire senza grossi guai, con le Cassandre che parlavano di una “recrudescenza del virus”, con i limiti delle strutture scolastiche mai risolti, con il digital divide ancora lì, a separare in due o in tre il Paese, le fasce d’età, le singole persone.

Perché è evidente che ci sono persone, famiglie, che possono permettersi un computer a testa, altre che possono comprarsi pure un tablet (in aggiunta), altre che non possono acquistare neppure uno smartphone, altre che in rete non possono andarci, altre che se ne fregano perché “non mi interessa”, “cosa vuoi che sia”, “a cosa vuoi che serva”.

Natale è alle porte

E così, alla ripresa della crescita dei contagi, si torna tutti a casa. E la Didattica a Distanza esce dalla “friend-zone” estiva e torna in prima linea. Ma tutti la affrontiamo, ora, con fastidio. Quasi che non sia uscita lei, dalla zona sfiga, ma che si sia entrati noi.

E infatti: proteste davanti alle scuole, insegnanti sugli scudi, studenti che vanno davanti alla scuola chiusa per studiare.

Perché è vero che la Didattica a Distanza isola, impedisce il contatto umano diretto, spinge a guardare uno schermo piuttosto che il proprio vicino di banco.

Ma non è così da sempre, da quando è uscito il telefonino? Ci si lamentava che i ragazzi, quando escono in gruppo, stanno sempre davanti “a quell’affare” e non si parlano. Lo fanno, forse, perché è stato più comodo così, per gli adulti.

Il figlio rompe le palle a tavola: dagli il telefono così si distrae. Il viaggio in macchina è noioso: dagli il tablet che gioca. Andiamo fuori con gli amici: si però mi porto dietro lo smartphone, così posso chattare online.

Così è, se ci pare. E gli strumenti per un uso più consapevole e cosciente del mezzo tecnologico non sono stati passati perché gli adulti non li hanno, perché comunque imparare una tecnologia è una rottura, perché si ha sensazione di perdere del tempo.

Perché l’informatica è in fondo un giochetto, da studiare fra italiano e matematica.

Dal 22 febbraio 2020 al 25 febbraio 2021

Quando scriviamo è passato un anno esatto dalla prima ondata e dalla conseguente prima quarantena. Il 22 febbraio 2020 si fermarono le scuole, con la promessa di ripartire a breve. Ad oggi alcuni studenti, in alcune parti di Italia, hanno rivisto la loro classe una sola volta. Un anno senza andare a scuola, un anno di Didattica a distanza, un anno di confusione.

Il 25 febbraio 2021 alcune regioni hanno cominciato a chiudere tutto di nuovo, si paventa una terza ondata di contagi, meglio non rischiare. E quindi anche gli studenti che hanno frequentato in presenza (quelli delle scuole medie), sono tornati a fare scuola a casa.

Le difficoltà però non sono diminuite, i problemi dopo un anno sono i medesimi: le famiglie non hanno abbastanza computer, la rete è quella che è, gli studenti sono stanchi di parlare a uno schermo

Ripensare il sistema a partire dalla Didattica a Distanza

Allora, forse, è arrivato il momento di ripensare a tutto il sistema. Costringere le scuole a essere performanti in quelle materie lì, quelle che da Cenerentole ora chiedono spazio perché offrono opportunità.

La Didattica a Distanza non può essere il capro espiatorio di errori che partono da un passato lontano e da un’endemica incapacità di affrontare il presente, per prepararsi al futuro.

La DAD deve diventare uno strumento, un’utilità. La DAD può diventare una materia di studio, in presenza, in classe.

Può diventare la scusa per imparare i diversi attrezzi online offerti da questo o quel servizio (la suite di Google, i software di montaggio video, di trattamento colore per le foto, i gestionali, etc) e maneggiarli con competenza.

Insomma: la DAD può essere un’opportunità, la prima dopo tanto tempo, per svecchiare la scuola e darle davvero il ruolo educativo che le spetta: quello di offrire alle nuove generazioni gli strumenti per confrontarsi con la vita che verrà.

2 Commenti

  1. Stefano Benericetti

    Sono d’accordissimo. Aggiungo solo, più come precisazione che come correzione a quanto scritto, che non solo gli studenti sono stati abbandonati a loro stessi: anche per gli insegnanti è da un anno che il motto è solo ed esclusivamente “armatevi e partite”.
    Per il resto, faccio girare perché la riflessione merita.
    E un carissimo saluto a Max e Corrado.

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    1. Alessandro Boriani (Autore Post)

      Grazie mille Stefano!

      Rispondi

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